Akira れメ萎
Lui era lì. Davanti a me. I nostri sguardi si toccavano lievemente, imbarazzati, come i nostri animi. Il silenzio adombrava la campagna, i ciliegi vibranti nell'olezzo e il mio cuore.
Il mio cuore aveva cessato i suoi sussurri dinanzi al figlio del pescatore. Era attraente. I muscoli cesellati sulle braccia di ragazzi erano montagne che si ergevano verso l'età adulta. Il viso dalla mascella dura, reduce dalla fame e dalla povertà, era pregno dalla voglia di ridere.
All'improvviso si avvicinò di più. Sempre più. Non osavo allontanarmi e trasformarmi in un fiume. L'imbarazzo bussava alle porte della mia mente, penetrando nella mia psiche. Ignoralo. Forse non si sta avvicinando. Vattene, Kohaku!
Ero sul punto di assecondare la mia coscienza, quando la mano olivastra di Akira prese la mia. Esterrefatto, osservai come quelle dita salde, sature di pesce e reti lercie, si intrecciarono colle mie dita.
Le sue labbra ricamarono un'espressione in bilico tra il divertimento e lo scherno.
-Caspita, hai una mano stupenda. Sembra quella di un suonatore di shamisen. È così piccola e delicata!- biascicò, ridacchiando.
Mi lasciò il polso. Si avvicinò a me, guidato dai miei occhi. Ero stranito. Che cosa avevo di così speciale? Perchè il figlio di un pescatore aveva scelto me?
-Hai anche occhi stupendi. In Giappone, non esistono ragazzi con occhi verdi così unici.- soggiunse, sorridendo.
- Perdinci, assomigli più ad una ragazzina che ad una divinità.-
Mi soffermai sul mio corpo delicato, nascosto dalla grossa casacca azzurro chiaro stretta da un nastro color lillà. Oh, il ragazzo aveva ragione. Non ero così minaccioso. Le mie braccia, le mie gambe avvolte da grossi calzoni, il mio viso rosato erano le membra di una ragazza pronta a fidanzarsi.
Non mi piacevo, tuttavia piacevo a quel figuro sicuro di sè.
-Comunque, io sono Akira. E tu?-
-Io mi chiamo Kohaku- sussurrai, con la voce increspata da un disagio esitante. Kohaku. Il mio nome sembrava che stesse per immergere nella mia gola per la vergogna.
-Posso chiamarti Haku?- chiese il ragazzo
-Preferisco di no.- in quanto dio tenevo alla mia dignità. Reputavo quel nomignolo come un'umiliazione confidenziale.
In quel frangente, una ciocca di capelli aveva contaminato il mio viso. Akira, delicatamente, spostò essa dietro il mio orecchio, continuando ad osservarmi. Le mie guance vennero ricamate da tessuti vermigli.
-Non preoccuparti, mica voglio fare l'amore con te! Comunque mi stai simpatico. Che ne dici se diventiamo amici?- domandò il giovane pescatore.
-Va bene-
Sorrisi dolcemente. Akira mi recava felicità e, certamente, la nostra amicizia appena nata non sarebbe stata interrotta. Nella mia ingenuità, credevo che egli sarebbe diventato un mio amico per disinteresse. Non badavo al fatto che per lui sarei stato una fonte di fortuna, soldi, cibo e bevande.
Sa, signore, se ci penso noi divinità abbiamo un destino amaro. Veniamo usati dai mortali solo per avere più fortuna, più cibo, più abiti e più amori . Non veniamo venerate per pura devozione e rispetto, ma per interessi consumistici. Questi motivi sono veramente squallidi. Signor Kamaji, lei è fortunato. Visto che è solo una creatura magica, lei non verrà mai sfruttata per il capitalismo.
-Sei un bravo ragazzo, Kohaku. Spero di rivederti.- disse Akira, deformando l'acqua mediante i remi.
Rimasto da solo, osservai la sagoma del giovane che scompariva dalla mia radura. L'amore, all'improvviso, cantò in me le sue prime note.
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